L’economia del degrado: quando la telecamera diventa il nuovo giudice


La spettacolarizzazione del degrado

Negli ultimi anni si è fatto sempre più comune un fenomeno che, dietro l’apparenza di denuncia, nasconde un paradosso inquietante: la spettacolarizzazione del degrado. I video che ritraggono borseggiatori colti sul fatto, spacciatori ripresi di nascosto o parcheggiatori abusivi smascherati in diretta popolano le piattaforme digitali, accumulano milioni di visualizzazioni e alimentano discussioni accese. Ma al di là della superficie moralista, questo tipo di contenuti racconta molto di più sulla società che li produce che non sui soggetti che vi compaiono.

Il bersaglio è sempre lo stesso: l’individuo, il “colpevole” facilmente identificabile, l’incarnazione visibile di un male che, in realtà, è assai più strutturale. Nei video non vengono mai riprese le porte chiuse delle stanze dove si decidono le sorti di un quartiere o di una città. Nessuno punta la camera verso i centri del potere politico o economico, dove si decide l’allocazione delle risorse, la distribuzione dei servizi, la pianificazione del lavoro. È molto più semplice – e redditizio – individuare un volto, un corpo, un gesto da condannare.

Dietro questo meccanismo si nasconde un grande trasferimento di responsabilità: si colpevolizza chi non riesce ad adattarsi a un sistema che, da anni, restringe gli spazi di vita, di reddito e di dignità. Una società che offre sempre meno opportunità, che riduce il welfare, che lascia gli stipendi ai limiti della sopravvivenza, ha bisogno di nuovi capri espiatori. L’individuo in difficoltà diventa così il simbolo vivente del “fallimento”, e su di lui si riversa la rabbia collettiva di chi non trova giustizia altrove.

In questo scenario, gli youtuber e i creatori di contenuti trovano terreno fertile per costruire la loro fortuna. Ogni video “virale” diventa un piccolo capitale: visualizzazioni, monetizzazione, visibilità. La denuncia si trasforma in prodotto, la miseria in fonte di guadagno. È un’economia del degrado, che si nutre delle ferite sociali invece di curarle. Le telecamere, invece di illuminare il buio delle istituzioni assenti, si accendono sui volti dei disperati, come fari crudeli su un palcoscenico di marginalità.

E così la società dello spettacolo, per dirla con Debord, non solo rappresenta il mondo, ma lo ricrea a sua immagine: un luogo in cui anche il dolore e la devianza diventano intrattenimento. Chi riprende crede di mostrare la realtà; in realtà, la piega ai codici del mercato. E in quel gesto, apparentemente semplice, si consuma la distanza tra chi osserva e chi viene osservato, tra chi giudica e chi subisce.

Il coraggio di non sapere: alla soglia dei cinquant’anni non ho ancora capito nulla


Invidio chi ha sempre un’opinione pronta: io continuo a vivere nel dubbio, che per me è diventato una forma di libertà

Invidio tutti coloro che riescono ad avere sempre un pensiero netto e definitivo su ogni questione. Io, che mi avvicino alla soglia dei cinquant’anni, mi accorgo invece di non avere ancora compreso un’infinità di cose, vicine e lontane.

Ogni giorno mi sorprendo nel vedere quante persone riescano a formulare opinioni immediate, senza esitazione, su qualsiasi argomento: dalla politica internazionale ai fatti di cronaca, dalla scienza alla morale quotidiana.

Basta accendere la TV o scorrere i commenti sui social per rendersene conto: le certezze abbondano, i dubbi sembrano spariti.

Mi colpisce anche la costante presenza di divulgatori e opinionisti che, con tono saccente, sembrano impegnati in una guerra permanente contro l’ignoranza, salvo poi deriderla, come se fosse un’anomalia sorprendente anziché una componente strutturale della società.

A ciò si aggiunge un nuovo universo di figure: psicologi online, mental coach, guru motivazionali, che con estrema sicurezza pretendono di insegnarci a vivere. Spiegano come decifrare le emozioni, interpretare il linguaggio del corpo, come vestirsi, come agire in ogni occasione.

Tutto questo finisce spesso per sottrarci un diritto fondamentale: quello di sbagliare. Perché è proprio l’errore che alimenta l’esperienza e forgia il carattere.

E allora mi chiedo: in un mondo sempre più complesso e mutevole, è davvero possibile avere sempre le idee così chiare? O forse questa certezza ostentata è il prodotto di un bisogno di semplificazione, di un desiderio di rassicurazione, più che di una reale comprensione della complessità?

Personalmente, provo un conflitto interiore. Non mi sento mai del tutto adeguato a formulare pensieri definitivi, ho sempre il timore di sbagliare. Così taccio, rifletto, e spesso rifletto a tempo indeterminato. Anche quando credo di aver delineato un’idea, tendo a custodirla, quasi a proteggerla, perché prima di tutto sento il bisogno di interiorizzarla.

Forse il dubbio, che appare come una fragilità, è invece una forma di resistenza che ci ricorda che non è necessario avere sempre le idee chiare, e che bisognerebbe riuscire ad abitare il chiaroscuro senza farsene schiacciare.

In un’epoca che premia la velocità dell’opinione, la sicurezza della risposta, che pretende certezze, il dubbio resta l’ultimo spazio di libertà: ci ricorda che comprendere il mondo non è mai un processo concluso, ma un cammino che richiede pazienza, ascolto e soprattutto la capacità di accettare l’incertezza.

Coltivare il dubbio è un atto di responsabilità: non spegne il pensiero, lo protegge.

Universo personale contro realtà globale: il peso del mondo sulle nostre spalle


Realtà globale e universo personale: il difficile equilibrio della complessità

Viviamo in una società in cui l’informazione ci raggiunge senza tregua: ogni giorno veniamo sommersi da notizie che raccontano guerre, crisi, catastrofinaturali, ingiustizie sociali.

Questo flusso continuo di stimoli ci trasmette l’illusione di dover essere costantemente informati e, al tempo stesso, ci pone di fronte a una responsabilità quasi insostenibile: come se ciascuno di noi fosse chiamato a farsi carico dei problemi dell’intero pianeta.

Ma il mondo è, per sua natura, complesso. Pretendere di dominarlo in ogni suo dettaglio significa condannarsi a vivere in uno stato di apprensione costante.

Non a caso, molti sociologi parlano di sovraccarico cognitivo e di ansia globale: condizioni prodotte da un eccesso di informazioni che non siamo in grado di elaborare né trasformare in azione concreta.

La verità è che la vita nel nostro piccolo è già complessa di per sé. Le relazioni quotidiane, il lavoro, le responsabilità familiari costituiscono un universo intimo fatto di equilibri delicati, che richiedono attenzione e cura.

Trascurare questo orizzonte, per inseguire continuamente la totalità del mondo, rischia di disgregare la nostra capacità di vivere il presente.

Un approccio consapevole suggerirebbe quindi un ribaltamento di prospettiva: anziché tentare di gestire l’ingestibile, dovremmo imparare a decifrare e a districarci nel nostro microcosmo, quello delle reti sociali più prossime, degli spazi di vita quotidiana.

Solo una volta acquisita consapevolezza di questi meccanismi si può aprire lo sguardo al mondo esterno con maggiore lucidità.

Il paradosso è che la società non fornisce strumenti adeguati per comprendere la complessità che ci circonda: l’educazione spesso si limita a trasmettere nozioni, senza sviluppare una vera cultura critica capace di leggere i processi sociali e politici locali, men che meno quelli globali.

Di conseguenza, siamo lasciati soli in un flusso di notizie che non sappiamo come collocare né come tradurre in azioni significative.

Forse la sfida del nostro tempo non è “sapere tutto”, ma imparare a scegliere cosa sapere e come collocarlo nel nostro senso di orizzonte.

In definitiva, riconoscere i limiti della propria capacità di comprendere e agire non significa coltivare indifferenza, bensì consapevolezza.

È proprio da un universo personale solido e criticamente elaborato che può emergere un contributo autentico e sostenibile alla trasformazione della realtà globale.

La vera contraddizione: chi accusa “i giovani di oggi” ha dimenticato di averli educati


Negli ultimi anni si è diffuso un discorso pubblico ricorrente che vede come oggetto privilegiato di critica le nuove generazioni. Espressioni come “non hanno rispetto, non conoscono il sacrificio, non hanno voglia di lavorare. Ai nostri tempi era diverso…”.
È un refrain che sentiamo spesso: i giovani di oggi sarebbero peggiori, mentre le generazioni passate sarebbero state migliori, più forti, più rispettose.

Ma questa convinzione nasconde una fallacia logica evidente. Se le nuove generazioni sono cresciute senza rispetto o disciplina, chi le ha educate? Proprio quelle stesse generazioni che ora si proclamano “più virtuose”. In altre parole: criticando i figli, si critica inevitabilmente anche il modo in cui i genitori li hanno formati.

Qui emerge un punto fondamentale: nessun individuo cresce nel vuoto. La società stessa, attraverso la famiglia, la scuola, i media, le istituzioni, modella i comportamenti, le aspirazioni e persino i valori delle persone. Non è quindi soltanto la responsabilità dei singoli genitori, ma di un intero contesto sociale che orienta ciò che viene considerato “giusto” o “sbagliato”.

Ogni epoca educa i propri giovani secondo le necessità e le priorità del momento: non è un caso che oggi, in un mondo globalizzato e precario, i ragazzi siano più sensibili al benessere psicologico e meno disposti ad accettare sacrifici ciechi come accadeva in passato.

La verità è che ogni epoca produce giovani diversi, non peggiori o migliori.

Ciò che un tempo era segno di sacrificio e rispetto (lavorare duramente, obbedire senza discutere) oggi si traduce in altre forme: capacità di adattamento, attenzione alla salute mentale, sensibilità verso l’ambiente, desiderio di bilanciare vita privata e lavoro. Sono valori differenti, che spesso vengono scambiati per “debolezza”, solo perché non corrispondono ai parametri del passato.

Il mito della “generazione d’oro” appartiene più alla nostalgia che alla realtà.

La memoria tende a idealizzare ciò che è stato, dimenticando problemi, fatiche e contraddizioni del passato.

Forse allora la vera domanda non è se i giovani di oggi siano “meno educati” o “più deboli”, ma quali strumenti la società contemporanea, nelle sue molteplici articolazioni — attraverso adulti, istituzioni e cultura — abbia realmente fornito loro per affrontare un futuro sempre più complesso.

La trappola sociale delle aspettative: il vero motivo delle nostre frustrazioni


Come la società alimenta illusioni che finiscono per renderci insoddisfatti.

Viviamo immersi in un contesto sociale che non smette di generarci aspettative. Fin da piccoli ci viene suggerito che esiste una relazione diretta tra impegno e ricompensa, tra investimento e ritorno: se studi otterrai successo, se ti dedichi agli altri riceverai gratitudine, se ami verrai amato allo stesso modo. È una narrazione rassicurante, ma raramente corrisponde alla realtà.

Il modello sociale contemporaneocompetitivo, performativo e consumistico – tende a rafforzare questa illusione. Ci spinge a pensare la vita come una sequenza di obiettivi da raggiungere e di premi da conquistare, in cui anche i rapporti umani diventano quasi “contratti impliciti”: se io do, tu dovresti restituire. Eppure, ogni volta che questo schema non si realizza, sperimentiamo delusione, frustrazione, a volte perfino risentimento.

Il punto centrale è che non sono tanto “gli altri” a deluderci, quanto la struttura stessa delle nostre aspettative, costruite su un presupposto fragile: l’idea che la vita ci debba qualcosa. Ma la vita non funziona secondo logiche contabili, e nemmeno le relazioni umane. L’imprevedibilità, l’asimmetria e persino la gratuità sono elementi intrinseci della nostra esperienza sociale.

Forse la vera maturità sta nel riconoscere che non tutto ciò che offriamo troverà una corrispondenza. Che l’altro non è un nostro specchio né un nostro debitore. E che, proprio nella possibilità di agire senza calcolare sempre un ritorno, si apre lo spazio per relazioni più autentiche, meno condizionate e più libere.

Smettere di concepire la vita come un conto da pareggiare significa accettare che non ci è dovuto nulla, ma che, proprio per questo, ogni gesto autentico, ogni incontro e ogni sorpresa possono assumere un valore che va oltre la logica della ricompensa.

Divulgazione o autocelebrazione? Il paradosso della conoscenza ai tempi dei social


Uno degli aspetti più controversi della divulgazione contemporanea riguarda il suo trasferimento dallo spazio accademico ai social media. In questo passaggio, ciò che dovrebbe essere un’attività di trasmissione del sapere si trasforma spesso in un’operazione di visibilità personale, in cui l’obiettivo reale non è più la conoscenza, ma la notorietà.

Questa contraddizione rappresenta un vero e proprio ossimoro: ci si presenta come divulgatori, con la presunzione di “illuminare le masse”, ma in realtà si agisce come intrattenitori, più interessati all’hype della pagina che al dialogo con il pubblico. Se la divulgazione avesse davvero come fine l’educazione, essa dovrebbe necessariamente adattarsi ai destinatari, trovare un linguaggio accessibile e costruire ponti di comprensione. Invece, troppo spesso, la distanza tra divulgatore e pubblico si fa abisso.

Il nodo centrale è il livello medio di scolarizzazione. Pretendere di imporre concetti complessi a chi non ha ancora gli strumenti per comprenderli è paragonabile al tentativo di spiegare le leggi della fisica a un bambino di cinque anni. Il risultato è inevitabile: incomprensioni, resistenze, derisioni reciproche. Eppure, la responsabilità non dovrebbe ricadere sul pubblico. È il divulgatore che, in quanto portatore di conoscenza, dovrebbe possedere la capacità e la pazienza di tradurre, semplificare, mediare.

I social, in questo senso, hanno un duplice effetto. Da una parte, offrono a chiunque diritto di parola, moltiplicando la possibilità di confronto. Dall’altra, portano fuori dal recinto accademico nozioni e concetti che rischiano di essere banalizzati o fraintesi, proprio perché non esiste più un filtro culturale che li renda accessibili in maniera graduale. Ne deriva una dinamica distorta, in cui il “pubblico incolto” viene accusato di non capire, e il “divulgatore” perde la pazienza che dovrebbe invece costituire il suo principale strumento di lavoro.

Il risultato è paradossale: chi possiede più strumenti culturali finisce per comportarsi in maniera meno lucida di chi dovrebbe ricevere quelle conoscenze. Se l’obiettivo è davvero la divulgazione, il dialogo con il pubblico non è un ostacolo, ma la condizione stessa per dare senso all’attività. In caso contrario, la divulgazione si riduce a spettacolo e autocelebrazione.

Alla fine, la domanda da porsi non è tanto se il pubblico sia pronto a ricevere certi contenuti, quanto se chi li diffonde sia disposto a fare lo sforzo necessario per renderli comprensibili. Perché, in questa dinamica, dei due, uno dovrebbe essere quello più intelligente.

OSTENTAZIONE DEL LUSSO E INVIDIA SOCIALE: TUTORIAL BASICO PER CAPIRE LE RAGIONI


C’è questa tendenza, ormai consolidata, di ostentare con insopportabile tracotanza i propri averi, i propri successi, le proprie comodità, i lussi, le entusiasmanti, incontenibili ed inesauribili felicità.

Ed è insopportabile non tanto per l’invidia che questa pratica suscita nello spettatore passivo e inoperoso (inoperoso perché “sfigato” e incapace, secondo i canoni che questi signori della felicità promuovono), ma perché si ostinano a dare per scontato che questo genere (o categoria) di individui non debba proprio esistere.

Perché per loro è inconcepibile il fatto che ci sia qualcuno che giudichi o disapprovi, o addirittura ripugni tutto questo pavoneggiare ricchezze e felicità.

Non sanno, o meglio, fanno finta di non sapere o non vogliono più ricordare, che i sacrifici non riservano a tutti gli stessi risultati. Che la società, forse gli sembrerà strano da lassù, è più complessa di quel che ci si ostini a credere e a frequentare.

La stragrande maggioranza degli individui non ha le stesse condizioni sociali favorevoli, le stesse capacità, lo stesso bagaglio culturale, la stessa posizione geografica e sopra ogni cosa la stessa fortuna di chiunque altro.

Viviamo in un periodo storico profondamente debilitato da guerre, rincari, crisi, emergenze sanitarie, che stanno negando ai più le condizioni sociali favorevoli utili alla realizzazione di sé.

Bisognerebbe, oltre a questi motivi, comprendere che in ogni caso, pur immersi in questo disastro, siamo tutti “obbligati” ad avere uno smartphone e una connessione ad internet se non si vuole rischiare la completa emarginazione sociale. E quando entriamo nei social, divenuti appunto ormai un surrogato della società, assistere a tutto quel benessere mentre si muore di miseria, genera frustrazione. Punto. Non è una questione sulla quale si può discutere: è così e basta.

Parlare di invidia, negando il fatto oggettivo che è inverosimile non suscitarla pavoneggiandosi in quel modo in questo periodo storico, è da miserabili, da limitati mentali, da ignoranti. Non voler rendersi conto che la società è fatta di tanti strati, o categorie, anche se sarebbe più corretto parlare di più fortunati e di meno sfortunati, significa essere completamente disconnessi dalla realtà, e sorprendersi o far finta di dispiacersi, o peggio ancora etichettare dispregiativamente come “invidiosi” tutti coloro che ti rivolgono critiche, e anche offese o addirittura minacce (che giustamente devono essere pagate penalmente, ma non è questo il tema), dopo essersi gonfiati pubblicamente a colpi di slogan espliciti come “volere è potere“, “l’ostentazione è la realizzazione di sé” (o viceversa), ma impliciti come “se non ce la fai sei un fallito incapace destinato all’oblio e al silenzio“, è da prepotenti, e quindi da vigliacchi.

Ma noi davvero vogliamo credere che i “professionisti dell’immagine” consiglino a questi signori di presentarsi al pubblico con quelle modalità senza che abbiano messo in conto reazioni sociali di quel genere? Ma poi ci sarebbe anche da spiegare il senso di questa strategia commerciale, che non può che ghettizzare e rivolgere la parola ad una sola categoria di pubblico, quella più “fortunata” (ma secondo costoro più capace), escudendo “pubblicamente” l’altra meno fortunata (ma incapace, sempre secondo lorsignori).

E quindi le vere domande che questi signori del benessere dovrebbero farsi sono: che bisogno c’è di far sapere a tutti di aver acquistato un’auto di lusso? E perché rincarare la dose escludendo pubblicamente i meno fortunati etichettandoli con disprezzo e falso dispiacere come “invidiosi”? È davvero necessario, in nome del profitto e del benessere individualistico, schiacciare con dispregio e denigrazione tutte quelle persone che non sono in target con il nostro prodotto?

Domande che chiunque ancora dotato di ragione e consapevolezza dovrebbe farsi. Anche se la dote migliore a prevalere dovrebbe essere quella del coraggio. Il coraggio di riuscire ancora a guardare in faccia la realtà.

L’autocelebrazione


L’autocelebrazione inganna l’autostima; è l’ammirazione verso il contenitore alienato dal contenuto. È il comportamento artificioso con cui il narcisismo esprime se stesso; è specchiarsi per guardarsi intorno agli occhi. È l’autoscatto degenerato in selfie. È la perversione del sé. È la convinzione di essere speciali emulando un mondo di replicanti. È pretendere il riconoscimento egemone della propria diversità escludendo l’uguaglianza; è rivendicare la propria diversità a svantaggio delle varietà. L’autocelebrazione non è analisi ma sintesi. È voler scrivere un capitolo di un libro che non si è letto. È ambire ad esser conosciuti, non a conoscere; è fare pubblicità a se stessi, è annuncio, propaganda, è la mercificazione dell’Io che diventa un articolo su uno scaffale: è il soggetto che diviene oggetto. L’autocelebrazione è in eterna competizione per aggiudicarsi il primo posto, perché arriva sempre al secondo.
“Nulla è più terribile dell’ignoranza attiva”.

Johann Wolfgang von Goethe

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LE PROTESTE SONO DAVVERO COSÌ RIDICOLE?


Dunque, a me questa storia che chi manifesta contro Green Pass e misure anti-Covid siano da ritenersi tutti imbecilli, frustrati, ignoranti, sgrammaticati, terroristi, rivoltosi, e vittime delle Fake News, avrebbe anche un po’ stancato.

Intanto vorrei capire allora per quale motivo, se vengono considerati così incapaci, lo Stato non dovrebbe prendersene la responsabilità ammettendo le proprie colpe. Se la popolazione, che tu fino a quel momento hai guidato, educato e formato, non fa altro che scendere in piazza per manifestare il proprio dissenso (non importa di che natura) aumentando sempre di più la sfiducia nei tuoi confronti, significa che non hai fatto bene il tuo lavoro di governo. Deve essere chiaro prima di ogni altro aspetto questo punto.

Insomma, seguitare a dare dell’inetto al tuo popolo è come darlo implicitamente a se stessi. E non si comprende come persistendo con questa pratica si possa pensare di migliorare la condizione sociale generale. Anzi, la si peggiora gradualmente, perché creando un gruppo di dissidenti senza accollarsi alcun onere, e oltretutto reprimendola con ogni mezzo come fosse l’unico vero male della società arrivato dal nulla, non fa altro che aumentare disagi e frustrazioni anche in chi non fa parte di quella categoria, perché costretto in ogni caso a scontrarcisi.

Il problema fondamentale è che ci hanno apparecchiato davanti una società nella quale a vincere e a dominare crediamo essere colui che ne sa più di degli altri. Siamo esortati a competere l’uno contro l’altro e l’unico requisito richiesto per partecipare al confronto è quello di saper ammucchiare il più possibile informazioni dalle quali siamo letteralmente bombardati, e che sono sempre più vaste, infinite e contraddittorie.

I Media si sperticano in ogni modo per etichettare i “rivoltosi” come violenti e ignoranti, e chi ascolta passivamente non può fare altro che “scegliere” di stare da una parte o dall’altra. Quel che è certo è che non vengono dati margini per sollevare dubbi.

E il surplus di informazioni che riceviamo ci dà anche la ragione di sentire il bisogno di dire la nostra su argomenti e materie che non dovrebbero competerci.

Una gara a chi ne possiede di più, messi però nella condizione di saper apprendere sempre meno a causa del degrado educativo nel quale siamo stati infilati. Un po’ come fare un corso di chirurgia online e pretendere di saper effettuare subito dopo un trapianto di cuore.

Paradossalmente essere bombardati da informazioni che non trovano mai fine ci spinge all’interno di una megalomane presunzione, la quale ha come unico interesse quello di alimentare il proprio egocentrismo.

Oggi chi ha le basi per stabilire cosa è giusto e cosa non lo è? Tutti, di conseguenza nessuno. Le informazioni sono trasversali, di qualunque natura e materia, molteplici, differenti, discordanti e raggiungono chiunque e in ogni parte del mondo. Tutti sentono il bisogno di manifestare il proprio parere, il proprio dissenso, le proprie convinzioni, rafforzate puntualmente da algoritmi che seguono le nostre preferenze. Ci convinciamo di cosa è giusto e cosa non lo è proprio in proporzione alle conferme che ci vengono costantemente suggerite e che invadono la nostra vita. Convinzioni che a nostra volta rilanciamo dai nostri social; o sarebbe meglio dire “palcoscenici“.

Veniamo orientati scientemente e in maniera coerente verso le nostre convinzioni, pur non avendo queste nessuna sensatezza. E allora viene da chiedersi: chi regola questi algoritmi?

Se è il popolo a regolarne la condotta significa che tutto è lasciato nell’abbandono più totale. E in questo caso allora chi avrebbe lasciato tutto nelle mani del popolo? E perché?

La mancanza di controllo, di istituzioni dedite alla formazione culturale del popolo, sono elementi basilari che una società organizzata non può permettersi di perdere. E i risultati di questa assenza sono diventati così evidenti che si fa fatica a credere che siano veritieri per quanto incredibili. È una realtà talmente assurda da far perdere completamente la vista.

Chi guida il nostro cammino e verso quale direzione? Se davvero un algoritmo asseconda incessantemente le nostre preferenze per soddisfare interessi di mercato, chi ci insegna a controllare la nostra impulsività rispetto alle scelte che facciamo?

Nessuno.

Siamo prigionieri delle nostre stesse convinzioni, che per avere ragione hanno la sola necessità di essere rafforzate. Così ci circondiamo di altri che la pensano come noi. Si creano quindi fazioni, gruppi, correnti, partiti, movimenti e perfino sette.

Dove manca organizzazione sociale, dove mancano le condizioni sociali favorevoli, affinché un individuo possa affermarsi consapevolmente e trovare la propria posizione nella società, per sentirsi parte importante di un’intera popolazione, allora manca una guida, ed è inevitabile che in un tempo più o meno lungo il degrado faccia il suo corso.

E succede quello cui stiamo assistendo tutti, ma che la maggior parte degli spettatori ormai giudica in forza alle proprie convinzioni.

È così che finiamo banalmente per andare gli uni contro gli altri. Mentre chi governa può continuare indisturbato a fare i propri affari.

Ritengo che giudicare insensate le manifestazioni di questi ultimi mesi sia totalmente sbagliato. Si vogliono considerare incivili? Allora dovrebbe venire spontaneo chiedersi chi ha “educato” all’inciviltà tutte queste persone. E non chiederselo ci inquadra automaticamente nel gruppo contrapposto. In ogni caso, prendersela con chi ha un pensiero discordante con il nostro rivela di noi la stessa personalità di chi stiamo giudicando, e alla fine ce la prendiamo con le persone sbagliate.

Ma qui, in questo momento, non abbiamo bisogno di avere ragione o torto, come generalmente fanno i bambini che litigano e si fanno i dispettucci.

I popoli che scendono in piazza non sono degli inetti. Hanno le loro ragioni, che seppure dovessero essere irragionevoli hanno trovato nel tempo supporto e linfa vitale grazie ad un governo assente e insoddisfacente.

Questa battaglia, che viene condotta contro il malcontento e che si desidererebbe sopprimere a colpi di dati, spiegazioni, informazioni, non la vincerà mai nessuno, perché l’unico modo per interromperla risiede nella comprensione, e nella consapevolezza che il degrado è generato dalla mancanza di condizioni sociali favorevoli all’affermazione economica e alla crescita culturale dell’insieme degli individui intesi come popolo. Il modello sociale che viviamo impone di considerare questi aspetti. Invece le disuguaglianze economiche e sociali aumentano a dismisura.

Non possiamo pensare di sopprimere metà popolazione semplicemente perché la riteniamo inetta. Ed è a questo invece che molti anelano. Da una parte, e dall’altra. E siamo tutti pronti ad abbattere il nemico a colpi di informazioni, di articoli, di dati, di immagini, a supporto delle nostre ragioni, che riteniamo reali nella stessa misura in cui giudichiamo reali le nostre convinzioni.

Certo, pensare di far cambiare idea agli altri imponendo loro le nostre ragioni attraverso frasi e concetti che alle nostre orecchie sembrano insindacabili e meravigliose, è alquanto egocentrico. Va ammesso.

E il bello è che alla fine siamo tutti bravi a dire che ci manipolano, salvo poi precisare che i manipolati sono sempre gli altri. Invece nessuno è esente da questa pratica. Tutti i popoli del mondo sono manipolati, condotti verso una direzione più o meno giusta, e questo dipende unicamente da chi li governa.

Per concludere, quindi, se non si è d’accordo con chi manifesta il proprio malcontento, l’unico rimedio da adottare è quello di andare a risvegliare la nostra comprensione. Non giudicare, ascoltare in silenzio, ammettere i propri limiti. Insomma, bisognerebbe cercare di essere un po’ più umili.

NO, NON STA ANDANDO TUTTO BENE


Conte e Fedez

A proposito di Fedez, Ferragni e Conte, quello che secondo me non si è capito bene è il fatto che se il governo di una nazione sente il bisogno di interpellare personaggi come loro per raccomandare l’utilizzo della mascherina ai giovani può solo significare che siamo messi veramente male.

Gesti come questo servono in realtà a dare autorevolezza sociale a questi personaggi che, onestamente, non servono assolutamente a niente: sono l’emblema dell’inutilità. Non ho niente contro di loro, ma oggettivamente sono un esempio suffragato dal nulla, e questo nulla sconfinato da quel preciso momento è stato formalmente legittimato (o consacrato) a radicarsi e diffondersi sostituendo di fatto la cultura tradizionale degli uomini. Adesso possiamo dire che, essendo stati questi signori chiamati a divulgare il rispetto di normative in piena pandemia mondiale, tutto il nulla assoluto che realizzeranno sembrerà ancora più colmo che in passato, data l’importanza conquistata.

Uno Stato che ufficialmente affida il compito di educare la popolazione al senso civico ad un influencer e ad un cantante significa che prende atto che la scuola e tutti gli strumenti di cui storicamente si serviva per diffondere informazioni ed educazione non servono più a nulla. Inutile cercare di rafforzarli investendo affinché ci sia maggiore auterovelozza ed efficacia comunicativa attraverso questi strumenti, no, si cavalca e anzi si ratifica questo modello culturale completamente inutile.

I nostri figli ambiscono a fare i cantanti, rincorrono i “mi piace” e desiderano followers per realizzare il sogno di diventare influencer. Mentre noi ci domandiamo che fine hanno fatto i valori, qualcuno al posto nostro orienta l’attenzione delle nuove generazioni verso un modello sociale che desidera se stesso così com’è, privo del senso di appartenenza ad un mondo che poteva avere le potenzialità per diventare migliore, non attraverso i followers ma attraverso la formazione, la cultura millenaria di un pensiero critico che ha creato capolavori che si stanno dissolvendo sulle note di un inno alla spettacolarizzazione del vuoto lasciato dalla mancanza di esperienza di un popolo ormai abbandonato a se stesso.

Fedez e Ferragni sono i nuovi divulgatori del senso civico, del senso di responsabilità, del senso si appartenenza. Prendiamo atto del fallimento non solo di uno Stato, ma di un intero modello sociale al quale non rimane altro che cercare ispirazione all’interno di un contesto degradato e degradante nel quale sta affogando.

Ed è esattamente quello che sta (stanno) facendo nell’affrontare una pandemia che sta mettendo in ginocchio il mondo intero. Anziché rafforzare il complesso di elementi indispensabili a mantenere in piedi l’organizzazione sociale, punta a disgregarla sempre più compiendo scelte completamente fuori da ogni logica. A più contagiati equivangono più morti, pertanto oltre alle misure precauzionali c’era solo da intervenire potenziando le uniche strutture indispensabili in casi come questo: sanità e istruzione. Nulla di tutto questo è stato rafforzato. Nemmeno in una piccola significatica parte. E neppure le misure precauzionali sono state accettate da buona parte della popolazione dal momento che ormai lo Stato ha perduto ogni forma di autorevolezza nei confronti di cittadini ormai esausti e abbandonati sul baratro. E l’unica domanda che riesce a porsi, in tutto questo delirante nulla, è “quali influencer potrei consultare per diffondere il senso civico?

No, non sta andando tutto bene.

Coronavirus: la regola del silenzio


Indosso la mascherina perché la struttura organizzativa dello Stato di cui faccio parte ritiene sia necessaria per limitare il diffondersi del Covid-19. Questo non implica necessariamente che si debba essere d’accordo con questa prescrizione, fermo restando che personalmente lo sono.
Non ho problemi a coprirmi mento, bocca e naso perché ritengo che le privazioni delle libertà individuali siano da identificare altrove.

Scaricare l’App Immuni è facoltativo, non un obbligo, pertanto tutte le discussioni in merito alla questione sono totalmente inutili.

Non mi sento controllato da nessuno, e sono abbastanza sereno ad ammettere che tra “essere comandati” ed “essere governati” c’è una profonda differenza: le società, in tutta la storia dell’uomo, non sono mai state, e mai lo saranno, esentate da organizzazioni atte alla formazione dei popoli. Possono essere giuste o sbagliate, certamente è irrazionale determinarlo sulla base di un obbligo come quello di indossare una mascherina.

Non mi spertico in congetture giuridiche o mediche perché nessuno in tutta la mia esperienza di vita mi ha mai fatto sentire migliore di altri, e soprattutto perché sono profondamente consapevole che se avessi voluto o potuto avventurarmi sulla strada verso uno dei due ambiti avrei dovuto necessariamente studiare. Non l’ho fatto. Taccio perlopiù. Questo non significa che mi senta inferiore, no, significa accettare le competenze e rispettarle.

Riesco a vivere senza paura, con apprensione sicuramente e molta prudenza, perché i pericoli durante il viaggio della vita sono ovunque, da sempre. Questo non debilita il mio stile di vita, anzi, lo fortifica e mi spinge a cercare soluzioni sempre più adatte a semplificare la mia vita e quella della mia famiglia: ciò che è necessario stimola la creatività, e la creatività è una risorsa. Sentirsi impotenti, abbattuti e frustrati è la conseguenza alla convinzione di poter battere tutti e tutto. Non siamo delle creature mitologiche. Non siamo indistruttibili. Abbiamo tutti delle debolezze, e soprattutto deficienze.

Se tutto questo pensi possa condizionare il giudizio che gli altri hanno di te allora dovresti seriamente iniziare a chiederti perché vivi la tua vita sprecando tempo concentrando la tua attenzione su questo, piuttosto che spostarla sul rispetto di semplici norme che, onestamente, non limitano il tuo comportamento ma lo modificano soltanto.

Se sei dell’idea che indossare la mascherina sia un’imposizione sbagliata nessuno ti impedisce di pensarlo, non è illegittimo avere idee diverse. Diverso è imporre concretamente il tuo pensiero sugli altri, che osservano banalmente regole e leggi. Ed il rispetto verso gli altri affonda le sue radici nel terreno delle regole del vivere in comune: non viviamo su un’isola deserta, e non facciamo parte di società anarchiche.

L’unica cosa che dannatamente mi preoccupa è questo delirante accanimento praticato sui social media da parte di tutti. Siamo tormentati dal pensiero di essere controllati, ma al tempo stesso non facciamo altro che esporre quanto di più intimo abbiamo: i nostri pensieri. Non esistono più vergogna, riserbo, modestia, e prevale sempre più la convinzione di poter fare e dire tutto quello che ci passa per la testa senza considerare minimamente che questo modo di essere è l’equivalente di quel che contestiamo attraverso le nostre ossessive esternazioni. È un paradosso talmente lampante che sfugge alla comprensione con la stessa velocità con la quale si presenta. Ci mettiamo in mostra, raccontiamo le nostre giornate nei minimi dettagli, mostriamo chi siamo, cosa pensiamo e cosa facciamo a chiunque, ma al tempo stesso ci dichiariamo succubi di un governo che ci spia, proiettando però sugli altri difetti che appartengono a noi. Non vogliamo seguire le regole però ci lamentiamo se gli altri non seguono le nostre. Tutto ciò è inquietante.

L’inutilità del superfluo, dell’effimero, era ciò cui tutti, chi più e chi meno, profondamente aspiravamo. Il desiderio di riscoprire abitudini e valori, abbandonati a causa del tempo che “preferivamo” impiegare consumando l’inessenziale, è svanito nel nulla, disperso come polvere nel vento, e siamo dunque tornati a consumare pensieri e vita, immersi nel vuoto che lascia questa perpetua perdita di intimità. E insieme alle nostre intimità la nostra dignità.

Ora, sei contro la mascherina, la dittatura mediatica, quella politica (o di una certa politica a tuo giudizio), il sistema giudiziario, quello sanitario, le Forze dell’Ordine, e chissà cos’altro? Bene, fonda un partito e fatti votare, ottieni la maggioranza in parlamento, governa e cambia la società a tua immagine e somiglianza. Perché questa è la democrazia. Sì, proprio quella che tu reclami a gran voce in ogni dove. Ed è l’unico strumento a tua disposizione in grado di realizzare la tua visione della vita. Nel frattempo però rispetta le regole in corso. E se ritieni che questo governo sia illegittimo ripeti il procedimento sopra, perché se insisti allora significa che ti è poco chiaro il concetto. Oppure, se reputi difficoltoso e dispendioso tutto ciò, ingegnati, magari cominciando a supporre di non essere al di sopra di tutti, e su quel principio iniziare il percorso per essere qualcuno. Non uno qualunque: un individuo. E un individuo non si misura sulla base della sua popolarità, bensì sulle sue profondità. Esattamente quelle che incessantemente, ossessivamente sbatti fuori da te stesso invece di curarle e custodirle.

E comunque ogni tanto taci, che male non fa in tutta questa confusione.

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